
Vita
Una donna in fuga.
La storia di Vita
da Donetsk a Bucha, due fughe disperate dalla guerra.
Vita, una donna originaria di Donetsk, racconta il dramma della sua famiglia, costretta a lasciare la propria casa due volte: nel 2014 durante l'occupazione del Donbass e nel 2022 con l'inizio dell'invasione su larga scala della Russia.
2014: La prima fuga da Donetsk
Nel 2014, quando le truppe russe occuparono Donetsk, Vita e la sua famiglia capirono rapidamente che la loro città non sarebbe stata più stata sicura. «Era chiaro che l'occupazione non sarebbe stata breve. La nostra vita a Donetsk, il posto dove eravamo cresciuti e avevamo costruito la nostra casa, stava cambiando per sempre».
La situazione divenne insostenibile quando iniziarono i bombardamenti vicino all'aeroporto internazionale. Ricorda: «Vedevamo bagliori nel cielo e sentivamo esplosioni, ma in città non c'erano ancora combattimenti diretti. Tuttavia, la tensione cresceva ogni giorno».
La decisione di andarsene arrivò in modo improvviso e traumatico. Il giorno in cui il volo Malaysia Airlines fu abbattuto nei pressi di Snizhne, Vita e la sua famiglia stavano lasciando la città in treno: «Abbiamo ricevuto la notizia del disastro mentre eravamo in viaggio. Ci siamo resi conto che il rischio era reale e che non c'era futuro per noi a Donetsk».
Vita e il marito scelsero Kiev come destinazione, desiderosi di ricominciare in una zona sotto il controllo ucraino: «Non avremmo mai immaginato che la nostra fuga sarebbe stata solo l'inizio di una serie di eventi ancora più devastanti».
2019-2020: Una Nuova Vita a Bucha
Dopo alcuni anni a Kiev, la famiglia di Vita iniziò a costruire una nuova vita nella tranquilla cittadina di Bucha, famosa per il suo verde e per il senso di comunità. «Acquistammo un appartamento nel 2019. Lavorammo sodo per ristrutturarlo e trasformarlo nella nostra casa». Nel 2020, si trasferirono definitivamente, sentendosi finalmente al sicuro.
La vita riprese con una certa normalità: il figlio di Vita completò il liceo e si iscrisse al Politecnico di Kiev. I ricordi di Donetsk, con il loro peso di dolore e perdita, cominciarono a svanire. «Non volevo più pensare a quella città, che ormai era diventata un simbolo dell'occupazione russa. Bucha rappresentava la nostra rinascita».
24 Febbraio 2022: Il Risveglio della Guerra
La pace di Bucha fu spezzata il 24 febbraio 2022. Vita ricorda chiaramente quella mattina: «Ci svegliammo al suono delle esplosioni. Dalle finestre vedevamo i bagliori e sentivamo i colpi dei bombardamenti
24 Febbraio 2022: Bucha Piomba nella Guerra
La mattina del 24 febbraio 2022 Vita e la sua famiglia si svegliarono al suono assordante delle esplosioni. «Dalle finestre si vedeva il cielo illuminato da un fuoco sinistro, e le raffiche di mitragliatrici echeggiavano nell'aria. La paura era paralizzante: ci eravamo appena abituati alla pace, e ora tutto stava crollando di nuovo».
Nei primi giorni, la famiglia si rifugiò nel seminterrato del palazzo. «Portiamo giù materassi, coperte, e ciò che potevamo raccogliere in fretta. Sembrava di tornare indietro nel tempo, ai giorni dell'occupazione di Donetsk. Il rumore delle esplosioni era così forte che sembrava che il palazzo stesso tremasse. Ad ogni boato sembrava che il nostro rifugio crollasse».
27 Febbraio: I combattimenti a Bucha
Il 27 febbraio la guerra si avvicinò ancora di più. Bucha divenne teatro di violenti scontri tra le forze ucraine e gli invasori russi. «Le battaglie si svolgevano vicino a casa nostra, sulla strada Vokzalna. Dal nostro seminterrato sentivamo il rombo dei carri armati e il suono assordante delle esplosioni. Era come se il mondo intero si stesse sgretolando sulla nostra testa».
La paura era costante e opprimente. «Ogni esplosione ci faceva sobbalzare. Restavamo vicini, pregando in silenzio che tutto finisse presto».
10 marzo: L'arrivo dei soldati russi
I soldati russi, entrarono nella nostra area condominiale, fecero saltare in aria il cancello laterale. Con un boato che ci raggelò».
I soldati ispezionarono il palazzo. Vita ricorda con terrore il loro interrogatorio. «Ci chiesero perché fossimo ancora lì, quanti abitanti c'erano nell'edificio, e chi eravamo. Parlavano in modo intimidatorio. Uno di loro si avvicinò a me, e quando iniziai a parlare in russo, sembrò più disponibile, ma chi parlava ucraino fu allontanato bruscamente. Disse che non capiva la lingua».
La presenza dei militari fu un segnale chiaro: la situazione sarebbe solo peggiorata. «Capimmo che dovevamo andarcene, e in fretta. Ogni giorno che passava la situazione diventava più pericolosa».
La fuga da Bucha
Il giorno successivo, decisero di lasciare la città. Vita insisteva per partire, preoccupata soprattutto per suo figlio, Konstantyn, di 21 anni. «Non c'erano più elettricità, acqua o gas. Mio marito esitava, sperando nell'arrivo delle forze ucraine, ma io sapevo che non potevamo aspettare. Eravamo in pericolo».
I soldati russi dettarono le regole per la fuga: «Ci dissero che dovevamo indossare bende bianche sui polsi e muoverci lentamente. Vietato correre o fare movimenti improvvisi».
Partirono in auto, in una piccola colonna di veicoli. Vita era nella prima macchina con suo marito e altre sei persone.
La strada della morte
La fuga iniziò in un'atmosfera di terrore palpabile. Vita, suo marito e altre sei persone erano stipati nella prima macchina della colonna, mentre suo figlio Konstantyn viaggiava in un altro veicolo. «Non riuscivo a staccare gli occhi dalla strada, ma allo stesso tempo mi rifiutavo di guardare troppo a lungo. La paura per la vita di mio figlio era insopportabile: l'idea che fosse in un'altra macchina mi faceva impazzire».
Man mano che si avvicinavano alla periferia di Bucha, il vero orrore della guerra si rivelava. «Abbiamo visto una macchina distrutta, crivellata di colpi. La scena era insostenibile. La macchina era intrisa di sangue, e quell’immagine ci paralizzava».
Ovunque guardassero, c'erano segni di distruzione. «Corpi giacevano lungo i bordi delle strade, con le mani nere e le unghie bluastre: erano lì da giorni. Molti portavano con sé borse della spesa o oggetti quotidiani. Erano stati uccisi all'improvviso, senza motivo, mentre cercavano di sopravvivere».
Quando raggiunsero la strada per Zhytomyr, la situazione si fece ancora più inquietante. «La strada era un inferno: macchine distrutte, bruciate, e ovunque sangue e corpi carbonizzati. Non riuscivo a distogliere lo sguardo, ma ogni immagine si stampava nella mia mente in modo indelebile. Gli unici indizi per distinguere i militari dai civili erano le scarpe o gli abiti».
Ogni passo del viaggio metteva in luce la brutalità del conflitto. «Vedevamo passeggini abbandonati lungo la strada e ci chiedevamo: quei bambini sono ancora vivi? Era impossibile non sentirsi completamente sopraffatti dalla tragedia che ci circondava».
L'incontro con i soldati russi
Lungo la strada, il convoglio fu fermato ad un posto di blocco dai soldati russi, erano buriati. I più feroci tra i soldati di Putin. «Appena ci fermammo, il conducente della nostra macchina – una giovane donna – ci chiese di guardare fuori dal finestrino. Ai piedi della nostra auto c'era una gamba umana staccata. Il posto di blocco era circondato da teschi e resti umani bruciati, disposti intenzionalmente per terrorizzare chiunque passasse di lì».
I soldati confiscarono temporaneamente i cellulari, ma li restituirono quando videro che erano vecchi modelli. «Il loro atteggiamento era freddo, calcolato. Tutto sembrava costruito per instillare paura e sottomissione».
Verso la libertà
Dopo ore di viaggio, con il cuore in gola e gli occhi sempre attenti, finalmente raggiunsero una zona controllata dall'esercito ucraino. «Quando vedemmo il primo posto di blocco con la bandiera ucraina, non riuscimmo a trattenere le lacrime. Era un'emozione incontenibile. Eravamo vivi, eravamo liberi, e avevamo lasciato l'inferno alle nostre spalle».
Nel convoglio, molti piangevano. Vita si sentiva sopraffatta dalla gratitudine ma anche dalla consapevolezza di essere sopravvissuta a qualcosa che avrebbe segnato la sua vita per sempre.
Oggi Vita e la sua famiglia sono rientrati a casa, ma le ferite di ciò che hanno vissuto non sono guarite. «Abbiamo visto l'orrore della guerra due volte: prima a Donetsk e poi a Bucha. Non ci sono parole per descrivere cosa significa vivere in costante paura, perdere tutto, e dover ricominciare ancora».
Concludo con un pensiero pieno di speranza e forza: «Questa guerra ha portato via molte cose, ma non ha distrutto la nostra volontà di vivere. Bucha è diventata un simbolo dell’orrore della guerra, ma anche della resistenza. Non dimenticheremo mai ciò che è successo, ma continueremo a lottare per la nostra libertà».






La cantina rifugio





